I SEPOLCRI
Ugo Foscolo
Deorum amnium iura sancta sunto
- All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
- confortate di pianto è forse il sonno
- della morte men duro? Ove piú il Sole
- per me alla terra non fecondi questa
- bella d'erbe famiglia e d'animali,
- e quando vaghe di lusinghe innanzi
- a me non danzeran l'ore future,
- né da te, dolce amico, udrò piú il verso
- e la mesta armonia che lo governa,
- né piú nel cor mi parlerà lo spirto
- delle vergini Muse e dell'amore,
- unico spirto a mia vita raminga,
- qual fia ristoro a' dí perduti un sasso
- che distingua le mie dalle infinite
- ossa che in terra e in mar semina morte?
- Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
- ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
- tutte cose l'obblío nella sua notte;
- e una forza operosa le affatica
- di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
- e l'estreme sembianze e le reliquie
- della terra e del ciel traveste il tempo.
- Ma perché pria del tempo a sé il mortale
- invidierà l'illusïon che spento
- pur lo sofferma al limitar di Dite?
- Non vive ei forse anche sotterra, quando
- gli sarà muta l'armonia del giorno,
- se può destarla con soavi cure
- nella mente de' suoi? Celeste è questa
- corrispondenza d'amorosi sensi,
- celeste dote è negli umani; e spesso
- per lei si vive con l'amico estinto
- e l'estinto con noi, se pia la terra
- che lo raccolse infante e lo nutriva,
- nel suo grembo materno ultimo asilo
- porgendo, sacre le reliquie renda
- dall'insultar de' nembi e dal profano
- piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
- e di fiori odorata arbore amica
- le ceneri di molli ombre consoli.
- Sol chi non lascia eredità d'affetti
- poca gioia ha dell'urna; e se pur mira
- dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
- fra 'l compianto de' templi acherontei,
- o ricovrarsi sotto le grandi ale
- del perdono d'lddio: ma la sua polve
- lascia alle ortiche di deserta gleba
- ove né donna innamorata preghi,
- né passeggier solingo oda il sospiro
- che dal tumulo a noi manda Natura.
- Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
- fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti
- contende. E senza tomba giace il tuo
- sacerdote, o Talia, che a te cantando
- nel suo povero tetto educò un lauro
- con lungo amore, e t'appendea corone;
- e tu gli ornavi del tuo riso i canti
- che il lombardo pungean Sardanapalo,
- cui solo è dolce il muggito de' buoi
- che dagli antri abdüani e dal Ticino
- lo fan d'ozi beato e di vivande.
- O bella Musa, ove sei tu? Non sento
- spirar l'ambrosia, indizio del tuo nume,
- fra queste piante ov'io siedo e sospiro
- il mio tetto materno. E tu venivi
- e sorridevi a lui sotto quel tiglio
- ch'or con dimesse frondi va fremendo
- perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio
- cui già di calma era cortese e d'ombre.
- Forse tu fra plebei tumuli guardi
- vagolando, ove dorma il sacro capo
- del tuo Parini? A lui non ombre pose
- tra le sue mura la città, lasciva
- d'evirati cantori allettatrice,
- non pietra, non parola; e forse l'ossa
- col mozzo capo gl'insanguina il ladro
- che lasciò sul patibolo i delitti.
- Senti raspar fra le macerie e i bronchi
- la derelitta cagna ramingando
- su le fosse e famelica ululando;
- e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
- l'úpupa, e svolazzar su per le croci
- sparse per la funerëa campagna
- e l'immonda accusar col luttüoso
- singulto i rai di che son pie le stelle
- alle obblïate sepolture. Indarno
- sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
- dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
- non sorge fiore, ove non sia d'umane
- lodi onorato e d'amoroso pianto.
- Dal dí che nozze e tribunali ed are
- diero alle umane belve esser pietose
- di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi
- all'etere maligno ed alle fere
- i miserandi avanzi che Natura
- con veci eterne a sensi altri destina.
- Testimonianza a' fasti eran le tombe,
- ed are a' figli; e uscían quindi i responsi
- de' domestici Lari, e fu temuto
- su la polve degli avi il giuramento:
- religïon che con diversi riti
- le virtú patrie e la pietà congiunta
- tradussero per lungo ordine d'anni.
- Non sempre i sassi sepolcrali a' templi
- fean pavimento; né agl'incensi avvolto
- de' cadaveri il lezzo i supplicanti
- contaminò; né le città fur meste
- d'effigïati scheletri: le madri
- balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono
- nude le braccia su l'amato capo
- del lor caro lattante onde nol desti
- il gemer lungo di persona morta
- chiedente la venal prece agli eredi
- dal santuario. Ma cipressi e cedri
- di puri effluvi i zefiri impregnando
- perenne verde protendean su l'urne
- per memoria perenne, e prezïosi
- vasi accogliean le lagrime votive.
- Rapían gli amici una favilla al Sole
- a illuminar la sotterranea notte,
- perché gli occhi dell'uom cercan morendo
- il Sole; e tutti l'ultimo sospiro
- mandano i petti alla fuggente luce.
- Le fontane versando acque lustrali
- amaranti educavano e vïole
- su la funebre zolla; e chi sedea
- a libar latte o a raccontar sue pene
- ai cari estinti, una fragranza intorno
- sentía qual d'aura de' beati Elisi.
- Pietosa insania che fa cari gli orti
- de' suburbani avelli alle britanne
- vergini, dove le conduce amore
- della perduta madre, ove clementi
- pregaro i Geni del ritorno al prode
- che tronca fe' la trïonfata nave
- del maggior pino, e si scavò la bara.
- Ma ove dorme il furor d'inclite gesta
- e sien ministri al vivere civile
- l'opulenza e il tremore, inutil pompa
- e inaugurate immagini dell'Orco
- sorgon cippi e marmorei monumenti.
- Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
- decoro e mente al bello Italo regno,
- nelle adulate reggie ha sepoltura
- già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
- morte apparecchi riposato albergo,
- ove una volta la fortuna cessi
- dalle vendette, e l'amistà raccolga
- non di tesori eredità, ma caldi
- sensi e di liberal carme l'esempio.
- A egregie cose il forte animo accendono
- l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
- e santa fanno al peregrin la terra
- che le ricetta. Io quando il monumento
- vidi ove posa il corpo di quel grande
- che temprando lo scettro a' regnatori
- gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
- di che lagrime grondi e di che sangue;
- e l'arca di colui che nuovo Olimpo
- alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide
- sotto l'etereo padiglion rotarsi
- piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
- onde all'Anglo che tanta ala vi stese
- sgombrò primo le vie del firmamento:
- - Te beata, gridai, per le felici
- aure pregne di vita, e pe' lavacri
- che da' suoi gioghi a te versa Apennino!
- Lieta dell'aer tuo veste la Luna
- di luce limpidissima i tuoi colli
- per vendemmia festanti, e le convalli
- popolate di case e d'oliveti
- mille di fiori al ciel mandano incensi:
- e tu prima, Firenze, udivi il carme
- che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,
- e tu i cari parenti e l'idïoma
- désti a quel dolce di Calliope labbro
- che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
- d'un velo candidissimo adornando,
- rendea nel grembo a Venere Celeste;
- ma piú beata che in un tempio accolte
- serbi l'itale glorie, uniche forse
- da che le mal vietate Alpi e l'alterna
- onnipotenza delle umane sorti
- armi e sostanze t' invadeano ed are
- e patria e, tranne la memoria, tutto.
- Che ove speme di gloria agli animosi
- intelletti rifulga ed all'Italia,
- quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
- venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
- Irato a' patrii Numi, errava muto
- ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
- desïoso mirando; e poi che nullo
- vivente aspetto gli molcea la cura,
- qui posava l'austero; e avea sul volto
- il pallor della morte e la speranza.
- Con questi grandi abita eterno: e l'ossa
- fremono amor di patria. Ah sí! da quella
- religïosa pace un Nume parla:
- e nutria contro a' Persi in Maratona
- ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
- la virtú greca e l'ira. Il navigante
- che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,
- vedea per l'ampia oscurità scintille
- balenar d'elmi e di cozzanti brandi,
- fumar le pire igneo vapor, corrusche
- d'armi ferree vedea larve guerriere
- cercar la pugna; e all'orror de' notturni
- silenzi si spandea lungo ne' campi
- di falangi un tumulto e un suon di tube
- e un incalzar di cavalli accorrenti
- scalpitanti su gli elmi a' moribondi,
- e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
- Felice te che il regno ampio de' venti,
- Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!
- E se il piloto ti drizzò l'antenna
- oltre l'isole egèe, d'antichi fatti
- certo udisti suonar dell'Ellesponto
- i liti, e la marea mugghiar portando
- alle prode retèe l'armi d'Achille
- sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi
- giusta di glorie dispensiera è morte;
- né senno astuto né favor di regi
- all'Itaco le spoglie ardue serbava,
- ché alla poppa raminga le ritolse
- l'onda incitata dagl'inferni Dei.
- E me che i tempi ed il desio d'onore
- fan per diversa gente ir fuggitivo,
- me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
- del mortale pensiero animatrici.
- Siedon custodi de' sepolcri, e quando
- il tempo con sue fredde ale vi spazza
- fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
- di lor canto i deserti, e l'armonia
- vince di mille secoli il silenzio.
- Ed oggi nella Troade inseminata
- eterno splende a' peregrini un loco,
- eterno per la Ninfa a cui fu sposo
- Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
- onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
- talami e il regno della giulia gente.
- Però che quando Elettra udí la Parca
- che lei dalle vitali aure del giorno
- chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove
- mandò il voto supremo: - E se, diceva,
- a te fur care le mie chiome e il viso
- e le dolci vigilie, e non mi assente
- premio miglior la volontà de' fati,
- la morta amica almen guarda dal cielo
- onde d'Elettra tua resti la fama. -
- Cosí orando moriva. E ne gemea
- l'Olimpio: e l'immortal capo accennando
- piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
- e fe' sacro quel corpo e la sua tomba.
- Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
- cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne
- sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
- da' lor mariti l'imminente fato;
- ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
- le fea parlar di Troia il dí mortale,
- venne; e all'ombre cantò carme amoroso,
- e guidava i nepoti, e l'amoroso
- apprendeva lamento a' giovinetti.
- E dicea sospirando: - Oh se mai d'Argo,
- ove al Tidíde e di Läerte al figlio
- pascerete i cavalli, a voi permetta
- ritorno il cielo, invan la patria vostra
- cercherete! Le mura, opra di Febo,
- sotto le lor reliquie fumeranno.
- Ma i Penati di Troia avranno stanza
- in queste tombe; ché de' Numi è dono
- servar nelle miserie altero nome.
- E voi, palme e cipressi che le nuore
- piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
- di vedovili lagrime innaffiati,
- proteggete i miei padri: e chi la scure
- asterrà pio dalle devote frondi
- men si dorrà di consanguinei lutti,
- e santamente toccherà l'altare.
- Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
- mendico un cieco errar sotto le vostre
- antichissime ombre, e brancolando
- penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
- e interrogarle. Gemeranno gli antri
- secreti, e tutta narrerà la tomba
- Ilio raso due volte e due risorto
- splendidamente su le mute vie
- per far piú bello l'ultimo trofeo
- ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
- placando quelle afflitte alme col canto,
- i prenci argivi eternerà per quante
- abbraccia terre il gran padre Oceàno.
- E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
- ove fia santo e lagrimato il sangue
- per la patria versato, e finché il Sole
- risplenderà su le sciagure umane.
“Siano rispettati i diritti dei Mani” massima di Cicerone. I Manes sono le anime dei defunti
Il carme inizia con una domanda retorica: la tomba può offrire conforto al sepolto? La morte (sonno della morte) è forse meno doloroso (men duro) all’ombra dei cipressi e dentro le tombe (urne) consolate dal pianto [dei vivi]? Quando (ove) il sole avrà smesso per me di fecondare il creato (questa bella d'erbe famiglia e d'animali - iperbato), quando l’avvenire attraente per le vagheggiate promesse avrà perso ogni seduzione (vaghe…future), né udirò più te, Pindemonte (dolce amico), [recitare] i tuoi versi (il verso) e l’armonia malinconica che li ispira (lo governa), né più nel cuore sentirò l’ispirazione (spirto) delle Muse e dell’amore, unica consolazione della mia vita errabonda (mia vita raminga – perché esule), quale consolazione sarà per la vita finita (qual…perduti) una lapide (sasso – pietra sepolcrale) che distingua i miei resti dagli infiniti altri (le mie dalle infinite ossa) che la morte sparge (semina) in terra e in mare?
È proprio vero Pindemonte ! anche la speranza, ultima dea (così era definita dai latini, l’ultima ad abbandonare l’uomo), fugge le tombe (si dilegua cioè l’ultima illusione di immortalità affidata appunto al sepolcro): la dimenticanza circonda (involve) tutte le cose nella sua tenebra (notte); e una forza attiva le trasforma (le affatica) incessantemente di movimento in movimento; e il tempo tramuta (traveste) sia l’uomo sia le sue tombe sia le ultime tracce (sembianze) sia ciò che resta (reliquie) della terra e del cielo.
Ma perché l’uomo dovrebbe privarsi (invidierà – da invidere latinismo) prima del tempo dell’illusione che [una volta] morto (spento) lo trattiene [gli fa credere di fermarsi] ancora sulle soglie dell’oltretomba (limitar di Dite) ?
Egli [l’uomo da morto] non vive forse anche sotto terra, quando gli sarà [divenuta] impercettibile (muta) l’attrattiva della vita (l’armonia del giorno, cioè la vita perduta), se può risvegliarla (destarla) nella mente dei suoi [cari] attraverso il culto della memoria (soavi cure: la cura delle tombe) ? Questa corrispondenza di sentimenti (sensi – lat.) amorosi è divina (celeste), è una dote divina negli uomini; e grazie a lei (per lei) si vive con l’amico morto e il morto [vive] con noi, se la sacra terra (se pia la terra) che lo ha accolto neonato e lo ha nutrito, porgendo l’ultimo asilo nel suo grembo materno, renda inviolabili (sacre) le sue spoglie dalle intemperie (dagli insulti delle nuvole - insultar de’ nembi) e dal piede profanatore degli uomini, e un sasso [la pietra sepolcrale] conservi il nome, e un albero (arbore – latinamente al femminile) amico profumato di fiori consoli le ceneri con la sua dolce ombra.
Solamente chi non lascia eredità di affetti [chi muore senza legami affettivi] ha poca gioia nella tomba; e se solo guarda (mira) oltre la [propria] sepoltura (in un mondo ultraterreno), vede la propria anima (spirto) vagabondare (errar) in mezzo al dolore (compianto) dei luoghi infernali (templi acherontei - si riferisce agli Acherousia Templa di Lucrezio), o rifugiarsi sotto le grandi ali del perdono di Dio: ma lascia le sue ceneri (sua polve) alle ortiche di una terra (gleba) deserta dove non prega [nessuna] donna innamorata, né [alcun] passante solitario ode il sospiro che la natura manda a noi dalla tomba.
Tuttavia (pur) una nuova legge [l’editto di Saint-Cloud] oggi impone che le tombe siano fuori dagli sguardi pietosi [fuori dai centri abitati], e toglie (contende) la fama (il nome) ai morti. E giace senza tomba il tuo sacerdote (si riferisce a Parini che non ebbe una tomba), o Talia (musa della poesia satirica), che poetando per te coltivò (educò – lat.) con lungo amore un lauro (l’alloro pianta sacra alle Muse) nella sua povera casa (povero tetto – allude alle modeste condizioni di Parini), e ti consacrò molte opere (t'appendea corone - metafora); e tu (Musa) abbellivi del tuo sorriso le sue poesie che criticavano (pungean) i viziosi aristocratici lombardi (Sardanapalo leggendario Re d’Assiria ricco e dissoluto è assunto per antonomasia a rappresentare la grassa nobiltà lombarda – lombardo Sardanapalo indica il “giovin Signore” protagonista del Giorno pariniano - vv.57/58 iperbato), a cui è gradito solo il muggito dei buoi che dalle rive dirupate dell’Adda (antri abdüani) e del Ticino gli consentono (lo fan) un’esistenza pingue e oziosa. Dove sei tu? O bella Musa fra queste piante (i giardini di Porta Venezia a Milano) dove io siedo e ricordo con desiderio la mia casa materna non sento profumare (spirar) l’ambrosia (il profumo d’ambrosia indica la presenza della Musa), indizio della tua divinità. Eppure tu venivi e gli sorridevi [Parini] sotto quel tiglio che ora con fronde tristi va fremendo, o Dea, perché non copre la tomba del vecchio [Parini] al quale in passato era generoso (cortese) dispensatore di pace e di ombra.
Forse tu [Musa] cerchi vagando (vagolando) fra le tombe umili (plebei tumuli) dove dorma [dove sia sepolta] la sacra testa del tuo Parini? La città [Milano], immorale (lasciva), amante (allettatrice) di cantanti castrati (oggetto di critica nell’ode pariniana La musica), non pose in suo onore alberi (non ombre pose – metonimia: ombre vale per piante) tra le sue mura, né lapidi (pietra), né iscrizioni (parola); e forse il ladro che scontò sul patibolo i delitti gli insanguina le ossa con la testa mozzata (l’ossa…delitti). [Tu Musa], senti raspare fra le macerie e le sterpi (bronchi) la cagna randagia che va errando (ramingando) sulle fosse e ululando per la fame; e l’upupa uscire dal teschio, dove fuggiva la notte (luna), e svolazzare intorno alle croci sparse per il camposanto e [senti] l’uccello immondo (la Bibbia la cataloga tra gli “uccelli immondi”) rimproverare con il [suo] verso funebre (luttuoso singulto) i raggi pietosi che le stelle donano alle sepolture dimenticate [e quindi senza lumi]. O Dea, preghi inutilmente [che] sul tuo poeta [Parini] [cadano] rugiade dalla notte tetra (squallida). Ahi! Sui morti non sorge [nessun] fiore, quando (ove) non sia onorato da lodi umane e da pianto affettuoso.
Dal giorno in cui nozze, leggi (tribunali) e religione (are) [cioè la civiltà] fecero sì che gli uomini primitivi (umane belve) divenissero pietose verso se stesse e verso gli altri, i vivi sottraevano all’aggressione degli agenti atmosferici (etere maligno) e delle belve (fere) i miseri resti [i corpi dei morti] che la natura con continue metamorfosi (veci eterne) destina ad altre forme (sensi altri).
Le tombe erano testimonianza delle glorie (fasti), e altari (are) per i figli; e da esse uscivano i responsi delle anime dei defunti (domestici Lari) [i trapassati diventavano divinità tutelari della casa ed elargivano ammonimenti e presagi] , e il giuramento sulle tombe degli avi fu considerato sacro: culto (religion) che le virtù civili e la pietà per i congiunti (pietà congiunta - ipallage) tramandarono (tradussero – lat.) per lungo tempo (lungo ordine d’anni).
Non sempre le lapidi sepolcrali fecero da pavimento alle chiese (templi); né il puzzo (lezzo) dei cadaveri mescolato (avvolto) agli incensi contaminò i fedeli (supplicanti); né le città furono rattristate (meste) da scheletri disegnati: le madri si svegliano nel sonno terrorizzate (balzan ne’ sonni esterrefatte), e protendendo le nude braccia sulla testa amata del loro caro lattante così che non lo svegli il gemere prolungato della persona morta che chiede dal Santuario agli eredi le messe a pagamento (venal prece – messe di suffragio per abbreviare la sua permanenza in purgatorio). Ma (ma segna un cambio di tono e dalla concitazione dei versi precedenti si passa alla serenità e calma dei versi che seguono) cipressi e cedri [alberi che si facevano crescere anticamente vicino alle tombe], riempiendo l’aria (i zefiri) di profumi (puri effluvi), stendevano sulle tombe il verde perenne [delle loro fronde] per eterna memoria, e vasi preziosi raccoglievano le lacrime offerte in voto.
Gli amici [del defunto] rapivano una scintilla al sole [accendevano una lampada] per illuminare il sepolcro (sotterranea notte), perché gli occhi dell’uomo morendo cercano il sole; e tutti i petti [dei moribondi] rivolgono l’ultimo sospiro alla luce fuggente (iperbato).
Versando acque purificatrici (lustrali), le fontane facevano crescere (educavano) amaranti [piante con foglie color rosso porpora, simbolo di immortalità] e viole sul tumulo mortuario; e chi sedeva [sulle tombe] a versare latte [versare in segno di offerta] e a raccontare le sue pene ai cari estinti sentiva intorno un profumo (fragranza – non dei fiori ma degli unguenti funebri) come dell’aria dei beati Elisi [secondo i greci e i latini l’Eliso era la dimora degli spiriti eroici, situato nell’estremo occidente].
Follia benefica (pietosa insania) che rende care alle giovani inglesi (britanne vergini – lat.) i giardini (orti – lat.) dei cimiteri (avelli) attorno alle città, dove le conduce l’amore della madre morta, dove pregarono i Geni (i Numi tutelari della Patria) di concedere il ritorno al valoroso (prode: Horatio Nelson) che troncò l’albero maestro della nave vinta (trionfata nave: il vascello francese Orient sconfitto ad Abukir) e con quel legno si fece preparare la bara.
Ma dove il desiderio (furor) di imprese gloriose (inclite gesta) è spento (dorme) e la ricchezza e la paura [di un despota] dominano la vita civile, cippi e monumenti di marmo appaiono vana ostentazione e funeste (inaugurate) immagini dell’oltretomba (Orco è uno dei nomi dell’oltretomba pagano).
Il popolo intellettuale e quello ricco e quello nobile [riferimento ai 3 collegi elettorali istituiti da Napoleone], ornamento e guida [detto ironicamente] per il bel regno italico, ha già la sua tomba da vivo nelle regge dove sempre risuona l’adulazione, e [come] unica lode [ha] gli stemmi [nobiliari]. A noi la morte prepari (apparecchi) una dimora serena (riposato albergo) dove un giorno la sorte cessi di perseguitarmi (dalle vendette) e gli amici (armistà = amicizia) raccolgano in eredità non ricchezze (di tesori eredità), ma caldi affetti (sensi) e l’esempio di una poesia ispiratrice di libertà (liberal carme l’esempio).
Le tombe (urne) dei grandi uomini (forti) spingono a nobili imprese gli animi, o Pindemonte e rendono al forestiero (peregrin) bella e santa la terra che le accoglie (le ricetta). Io quando vidi il monumento [la chiesa di S.Croce a Firenze] dove riposa il corpo di quel grande [Machiavelli] che, insegnando ai principi l’arte del governo (temprando lo scettro a’ regnatori), lo spoglia (ne sfronda) [invece di ogni] gloria (gli allor), e svela alle genti di quante iniquità e violenze (lagrime – sangue) grondi [il potere]; e la tomba (arca) di colui [Michelangelo] che in Roma innalzò agli dei (Celesti) un nuovo (nuovo perché cristiano) Olimpo [la cupola di San Pietro]; e la tomba di colui che [Galileo] vide ruotare vari pianeti (più mondi) sotto la volta celeste (l’etereo padiglion), e il sole illuminarli [stando] immobile (immoto – riferimento al sistema eliocentrico), così che aprì per primo la conoscenza del cielo (le vie del firmamento) all’inglese [Newton] (Anglo) che tanto ingegno vi applicò (tanta ala vi stese - metafora) - esclamai “beata te” [Firenze], per l’aria felice piena di vita, per le acque che gli affluenti (lavacri) dell’Arno fa scorrere verso di te dalle sue montagne (Apennino)! [celebra Firenze perché terra di incontro di doni della natura e doni dell’ingegno]
La luna, più luminosa per la purezza dell’aria (lieta dell’aer tuo), ricopre di luce limpidissima i tuoi colli, festanti per la vendemmia; e le valli circostanti popolate di case e di oliveti, mandano verso il cielo mille profumi di fiori (mille di fiori al ciel mandano incensi - iperbato): Tu Firenze, inoltre, hai udito per prima il carme [la divina commedia] che attenuà (allegrò) l’ira al ghibellino esule [Dante; che in realtà era guelfo], e tu hai dato i genitori (cari parenti – lat.) e la lingua [a Petrarca], (l’idioma…Calliope labbro: come se la Musa parlasse per lui), che velando di un velo candidissimo l’amore, [che era] nudo in Grecia e nudo in Roma, [lo] pose in grembo alla Venere celeste; ma [sei ancora] più beata [perchè] raccolte in un’unica chiesa (tempio – Santa Croce) conservi le glorie italiane, forse le uniche da quando le Alpi indifese (mal vietate – lat.) e l’onnipotenza delle alterne sorti umane ti sottrassero (invadeano) le armi e le ricchezze (sostanze), l’identità religiosa (are) e politica (patria) e, tranne la memoria [della passata grandezza], tutto. Qualunque speranza di riscatto ci sarà tra valorosi e poi nell’Italia tutta dovrà muovere di qui (quindi – cioè dalle tombe di Santa Croce). E spesso Vittorio [Alfieri] venne ad ispirarsi presso questi marmi Irato con gli Dei protettori (patrii Numi) della patria [per averla abbandonata], vagava silenzioso dove l’Arno è più deserto, osservando desideroso i campi e il cielo; e poiché nessun incontro (vivente aspetto) gli leniva (molcea) l’affanno (la cura), [egli], severo, si fermava qui; e sul volto aveva il pallore della morte e la speranza.
[Alfieri] è sepolto (abita) in eterno con questi grandi [perché è sepolto a Santa Croce nella tomba scolpita da Canova]: e le ossa emanano amore di patria. Ah si! Un Nume (personificazione dell’amore di Patria) parla di quella pace sacra (religiosa) e ispirò il valore e l’ira dei greci contro i persiani a Maratona, dove Atene consacrò le tombe ai suoi caduti. Il navigatore che navigò a vela quel mare [l’Egeo] sotto [l’isola] Eubea [detta anche Negroponte, sta di fronte a Maratona], vedeva nella vastità buia balenare scintille di elmi e di spade che si scontrano (cozzanti brandi), [vedeva] i roghi [le pire - per bruciare i cadaveri] fumare vapore di fuoco (igneo vapor), [vedeva] fantasmi (larve) di guerrieri scintillanti (corrusche) di armi di ferro cercare lo scontro (cercar la pugna); e nell’orrore dei silenzi notturni si spargeva nei campi un lungo frastuono (lungo…tumulto - iperbato) di eserciti e un suono di trombe (tube) e un [rumore prodotto dall’] incalzare di cavalli che corrono scalpitando sugli elmi dei moribondi, e pianto, ed inni, e il canto della Parche.
O Ippolito, felice te, che in gioventù (a’ tuoi verdi anni) percorrevi l’ampio regno dei venti! [fa riferimento al viaggio di Pindemonte a Malta e in Grecia]
E se il pilota (piloto) guidò la nave (drizzò l’antenna) oltre le isole Egèe, certo udisti le coste dell’Ellesponto [stretto dei Dardanelli] [ri]suonare di antichi fatti, e [udisti] la corrente rimbombare portando le armi di Achille alle coste del Capo Reteo sopra le ossa di Aiace: la morte è giusta dispensatrice di gloria verso i valorosi; né l’astuta intelligenza, né il favore dei re (Agamennone e Menelao) conservavano a Ulisse (Itaco) le difficili spoglie [le armi di Achille] (spoglie ardue perché di faticosa conquista), poiché l’onda incitata dagli dei dell’oltretomba (inferno Dei) le ritolse alla nave errabonda (poppa raminga, cioè alla nave di Ulisse destinata a lunghe peregrinazioni).
E le Muse, animatrici del pensiero umano (del mortale pensiero animatrici), chiamano me ad evocare gli eroi [greci], me che i tempi [malvagi] e il desiderio di onore fanno andare esule fra popolazioni diverse (diversa gente).
Le Muse (le Pimplèe – così dette dal Monte Pimpla ad esse sacro) siedono custodi dei sepolcri, e quando il tempo con le sue fredde ali vi distrugge perfino le rovine (vi spazza fin le rovine), allietano i deserti con il loro canto, e l’armonia supera il silenzio di mille secoli.
E oggi nella Troade [la regione dove sorgeva Troia] desertica (inseminata – lerreralmente “sterile”) splende eternamente [davanti] ai viaggiatori un luogo eterno [il sepolcro dell’Ilo antico Dardanide] grazie alla ninfa (per la ninfa [Elettra]) di cui Giove fu sposo e [che] diede a Giove il figlio Dàrdano [fondatore do Troia], da cui derivano (onde fur) Troia e Assàraco e i cinquanta letti nunziali (talami) [dei cinquanta figli sposati di Priamo] e il regno della popolazione discendente da Iulo [i Romani] (il regno della giulia gente).
Eterno per il fatto che (Però che – va riferito a eterno: spiega il motivo dell’eternità dei vv.235-236) quando Elettra udì la Parca [Atropo – che taglia il filo della vita] che la chiamava dalle vitali brezze (aure) del giorno [dalla vita] alle danze dell’Eliso [nell’oltretomba], rivolse a Giove l’ultima preghiera (voto supremo): E se – diceva - a te furono cari i miei capelli e il [mio] viso e le dolci notti (vigilie), e la volontà del destino non mi concede (assente) premio [sottinteso: del mio amore] migliore [della morte], almeno proteggi (guarda) dal cielo l’amante morta [la sua tomba], così che resti memoria della tua Elettra.
Così pregando moriva. E Giove (l’Olimpio cioè abitatore dell’Olimpo) piangeva di ciò; e assentendo col capo immortale (l’immortal…accennando) faceva piovere dai capelli ambrosia sulla ninfa, e fece sacri quel corpo e la sua tomba.
Qui ebbe sepoltura (posò) Erittonio [figlio di Dardano ed Elettra], e riposano i resti del giusto Ilo [fratello di Assaraco e pronipote di Erittonio, da Omero detto giusto]; qui le donne troiane scioglievano i capelli inutilmente – ahi! - scongiurando di allontanare (deprecando) l’imminente destino [la morte] dai loro mariti; qui venne Cassandra [figlia di Priamo condannata da Apollo a predire il futuro senza essere creduta], quando Apollo (il Nume) [entratole] in petto le faceva predire la fine (il dì mortale) di Troia; e cantò ai morti (all’ombre) un canto (carme) d’amore e [vi] guidava i nipoti, e l’insegnava (apprendeva) ai giovanetti il lamento amoroso.
E [Cassandra] diceva sospirando [ai nipoti]: O se mai il cielo vi consentirà di ritornare dalla Grecia (d’Argo – metonimia) dove nutrirete (pascerete) i cavalli [sarete cioè schiavi] di Diomede (Tidide – figlio di Tideo) e del figlio di Laerte [Ulisse], invano cercherete la vostra patria! Le mura, opera di Apollo (Febo) [in realtà fu Laomedonte aiutato da Febo e Poseidone], fumeranno sotto le loro rovine (reliquie).
Ma le divinità tutelari (i Penati) di Troia avranno dimora in queste tombe; perché è un dono degli dei conservare (servar) la fama (altero nome) [anche] nelle sventure (miserie).
E voi palme e cipressi [simboli del valore e della morte] che le nuore di Priamo piantano, e [che] crescerete presto – ahi!- innaffiati di lacrime vedovili, proteggete i miei avi: e chi, pietoso (pio), asterrà la scure dalle fronde consacrate (devote) si addolorerà meno (men si dorrà) per la perdita di persone care (consanguinei lutti) e toccherà santamente l’altare. Proteggete i miei avi. Un giorno vedrete un cieco mendicante [Omero] aggirarsi sotto le vostre ombre antichissime, e penetrare nei loculi (avelli) a tentoni (brancolando), e abbracciare le urne, e interrogarle. Le cavità nascoste gemeranno, e tutte le tombe narreranno (personificazione) di Troia (Ilio), distrutta (raso) due volte [da Ercole e dalle Amazzoni] e due risorta splendidamente sulle vie silenziose (su le mute vie – cioè sulla vita spenta dalla distruzione precedente) per rendere più bella la vittoria finale (ultimo trofeo) ai figli di Peleo [Achille e Pirro, cioè i greci] (Pelidi) mandati dal fato (fatati). Il poeta [Omero] (sacro vate), consolando con il suo canto quelle anime (alme) afflitte [i troiani], renderà eterna in tutto il mondo (per quante abbraccia terre il gran padre Oceano – Oceano è il fiume che secondo i greci scorreva ai margini dei continenti) la memoria dei principi Achei (prenci argivi) vittoriosi.
E anche tu Ettore, avrai l’onore del pianto ovunque (ove) sarà santo e degno di lacrime (lagrimato) il sangue versato per la patria [dovunque vi sarà civiltà], e finché il sole risplenderà sulle sciagure umane [finché durerà l’uomo].