LA GINESTRA
Giacomo Leopardi

TESTO

"E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce"
(Giovanni, III, 19).

 

  1. Qui su l'arida schiena
  2. del formidabil monte
  3. sterminator Vesevo,
  4. la qual null'altro allegra arbor né fiore,
  5. tuoi cespi solitari intorno spargi,
  6. odorata ginestra,
  7. contenta dei deserti. Anco ti vidi
  8. de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
  9. che cingon la cittade
  10. la qual fu donna de' mortali un tempo,
  11. e del perduto impero
  12. par che col grave e taciturno aspetto
  13. faccian fede e ricordo al passeggero.
  14. Or ti riveggo in questo suol, di tristi
  15. lochi e dal mondo abbandonati amante,
  16. e d'afflitte fortune ognor compagna.
  17. Questi campi cosparsi
  18. di ceneri infeconde, e ricoperti
  19. dell'impietrata lava,
  20. che sotto i passi al peregrin risona;
  21. dove s'annida e si contorce al sole
  22. la serpe, e dove al noto
  23. cavernoso covil torna il coniglio;
  24. fur liete ville e colti,
  25. e biondeggiàr di spiche, e risonaro
  26. di muggito d'armenti;
  27. fur giardini e palagi,
  28. agli ozi de' potenti
  29. gradito ospizio; e fur città famose
  30. che coi torrenti suoi l'altero monte
  31. dall'ignea bocca fulminando oppresse
  32. con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
  33. una ruina involve,
  34. dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
  35. i danni altrui commiserando, al cielo
  36. di dolcissimo odor mandi un profumo,
  37. che il deserto consola. A queste piagge
  38. venga colui che d'esaltar con lode
  39. il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
  40. è il gener nostro in cura
  41. all'amante natura. E la possanza
  42. qui con giusta misura
  43. anco estimar potrà dell'uman seme,
  44. cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
  45. con lieve moto in un momento annulla
  46. in parte, e può con moti
  47. poco men lievi ancor subitamente
  48. annichilare in tutto.
  49. Dipinte in queste rive
  50. son dell'umana gente
  51. le magnifiche sorti e progressive.
  52. Qui mira e qui ti specchia,
  53. secol superbo e sciocco,
  54. che il calle insino allora
  55. dal risorto pensier segnato innanti
  56. abbandonasti, e volti addietro i passi,
  57. del ritornar ti vanti,
  58. e procedere il chiami.
  59. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
  60. di cui lor sorte rea padre ti fece,
  61. vanno adulando, ancora
  62. ch'a ludibrio talora
  63. t'abbian fra sé. Non io
  64. con tal vergogna scenderò sotterra;
  65. ma il disprezzo piuttosto che si serra
  66. di te nel petto mio,
  67. mostrato avrò quanto si possa aperto:
  68. ben ch'io sappia che obblio
  69. preme chi troppo all'età propria increbbe.
  70. Di questo mal, che teco
  71. mi fia comune, assai finor mi rido.
  72. Libertà vai sognando, e servo a un tempo
  73. vuoi di novo il pensiero,
  74. sol per cui risorgemmo
  75. della barbarie in parte, e per cui solo
  76. si cresce in civiltà, che sola in meglio
  77. guida i pubblici fati.
  78. Così ti spiacque il vero
  79. dell'aspra sorte e del depresso loco
  80. che natura ci diè. Per questo il tergo
  81. vigliaccamente rivolgesti al lume
  82. che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
  83. vil chi lui segue, e solo
  84. magnanimo colui
  85. che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
  86. fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
  87. Uom di povero stato e membra inferme
  88. che sia dell'alma generoso ed alto,
  89. non chiama sé né stima
  90. ricco d'or né gagliardo,
  91. e di splendida vita o di valente
  92. persona infra la gente
  93. non fa risibil mostra;
  94. ma sé di forza e di tesor mendico
  95. lascia parer senza vergogna, e noma
  96. parlando, apertamente, e di sue cose
  97. fa stima al vero uguale.
  98. Magnanimo animale
  99. non credo io già, ma stolto,
  100. quel che nato a perir, nutrito in pene,
  101. dice, a goder son fatto,
  102. e di fetido orgoglio
  103. empie le carte, eccelsi fati e nove
  104. felicità, quali il ciel tutto ignora,
  105. non pur quest'orbe, promettendo in terra
  106. a popoli che un'onda
  107. di mar commosso, un fiato
  108. d'aura maligna, un sotterraneo crollo
  109. distrugge sì, che avanza
  110. a gran pena di lor la rimembranza.
  111. Nobil natura è quella
  112. che a sollevar s'ardisce
  113. gli occhi mortali incontra
  114. al comun fato, e che con franca lingua,
  115. nulla al ver detraendo,
  116. confessa il mal che ci fu dato in sorte,
  117. e il basso stato e frale;
  118. quella che grande e forte
  119. mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
  120. fraterne, ancor più gravi
  121. d'ogni altro danno, accresce
  122. alle miserie sue, l'uomo incolpando
  123. del suo dolor, ma dà la colpa a quella
  124. che veramente è rea, che de' mortali
  125. madre è di parto e di voler matrigna.
  126. Costei chiama inimica; e incontro a questa
  127. congiunta esser pensando,
  128. siccome è il vero, ed ordinata in pria
  129. l'umana compagnia,
  130. tutti fra sé confederati estima
  131. gli uomini, e tutti abbraccia
  132. con vero amor, porgendo
  133. valida e pronta ed aspettando aita
  134. negli alterni perigli e nelle angosce
  135. della guerra comune. Ed alle offese
  136. dell'uomo armar la destra, e laccio porre
  137. Al vicino ed inciampo,
  138. stolto crede così qual fora in campo
  139. cinto d'oste contraria, in sul più vivo
  140. incalzar degli assalti,
  141. gl'inimici obbliando, acerbe gare
  142. imprender con gli amici,
  143. e sparger fuga e fulminar col brando
  144. infra i propri guerrieri.
  145. Così fatti pensieri
  146. quando fien, come fur, palesi al volgo,
  147. e quell'orror che primo
  148. contra l'empia natura
  149. strinse i mortali in social catena,
  150. fia ricondotto in parte
  151. da verace saper, l'onesto e il retto
  152. conversar cittadino,
  153. e giustizia e pietade, altra radice
  154. avranno allor che non superbe fole,
  155. ove fondata probità del volgo
  156. così star suole in piede quale star può quel
  157. ch'ha in error la sede.
  158. Sovente in queste rive,
  159. Che, desolate, a bruno
  160. Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
  161. Seggo la notte; e su la mesta landa
  162. In purissimo azzurro
  163. Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
  164. Cui di lontan fa specchio
  165. Il mare, e tutto di scintille in giro
  166. Per lo vòto seren brillare il mondo.
  167. E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
  168. Ch'a lor sembrano un punto,
  169. E sono immense, in guisa
  170. Che un punto a petto a lor son terra e mare
  171. Veracemente; a cui
  172. L'uomo non pur, ma questo
  173. Globo ove l'uomo è nulla,
  174. Sconosciuto è del tutto; e quando miro
  175. Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
  176. Nodi quasi di stelle,
  177. Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
  178. E non la terra sol, ma tutte in uno,
  179. Del numero infinite e della mole,
  180. Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
  181. O sono ignote, o così paion come
  182. Essi alla terra, un punto
  183. Di luce nebulosa; al pensier mio
  184. Che sembri allora, o prole
  185. Dell'uomo? E rimembrando
  186. Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
  187. Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
  188. Che te signora e fine
  189. Credi tu data al Tutto, e quante volte
  190. Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
  191. Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
  192. Per tua cagion, dell'universe cose
  193. Scender gli autori, e conversar sovente
  194. Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
  195. Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
  196. Fin la presente età, che in conoscenza
  197. Ed in civil costume
  198. Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
  199. Mortal prole infelice, o qual pensiero
  200. Verso te finalmente il cor m'assale?
  201. Non so se il riso o la pietà prevale.
  202. Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
  203. Cui là nel tardo autunno
  204. Maturità senz'altra forza atterra,
  205. D'un popol di formiche i dolci alberghi,
  206. Cavati in molle gleba
  207. Con gran lavoro, e l'opre
  208. E le ricchezze che adunate a prova
  209. Con lungo affaticar l'assidua gente
  210. Avea provvidamente al tempo estivo,
  211. Schiaccia, diserta e copre
  212. In un punto; così d'alto piombando,
  213. Dall'utero tonante
  214. Scagliata al ciel profondo,
  215. Di ceneri e di pomici e di sassi
  216. Notte e ruina, infusa
  217. Di bollenti ruscelli
  218. O pel montano fianco
  219. Furiosa tra l'erba
  220. Di liquefatti massi
  221. E di metalli e d'infocata arena
  222. Scendendo immensa piena,
  223. Le cittadi che il mar là su l'estremo
  224. Lido aspergea, confuse
  225. E infranse e ricoperse
  226. In pochi istanti: onde su quelle or pasce
  227. La capra, e città nove
  228. Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
  229. Son le sepolte, e le prostrate mura
  230. L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
  231. Non ha natura al seme
  232. Dell'uom più stima o cura
  233. Che alla formica: e se più rara in quello
  234. Che nell'altra è la strage,
  235. Non avvien ciò d'altronde
  236. Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
  237. Ben mille ed ottocento
  238. Anni varcàr poi che spariro, oppressi
  239. Dall'ignea forza, i popolati seggi,
  240. E il villanello intento
  241. Ai vigneti, che a stento in questi campi
  242. Nutre la morta zolla e incenerita,
  243. Ancor leva lo sguardo
  244. Sospettoso alla vetta
  245. Fatal, che nulla mai fatta più mite
  246. Ancor siede tremenda, ancor minaccia
  247. A lui strage ed ai figli ed agli averi
  248. Lor poverelli. E spesso
  249. Il meschino in sul tetto
  250. Dell'ostel villereccio, alla vagante
  251. Aura giacendo tutta notte insonne,
  252. E balzando più volte, esplora il corso
  253. Del temuto bollor, che si riversa
  254. Dall'inesausto grembo
  255. Su l'arenoso dorso, a cui riluce
  256. Di Capri la marina
  257. E di Napoli il porto e Mergellina.
  258. E se appressar lo vede, o se nel cupo
  259. Del domestico pozzo ode mai l'acqua
  260. Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
  261. Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
  262. Di lor cose rapir posson, fuggendo,
  263. Vede lontan l'usato
  264. Suo nido, e il picciol campo,
  265. Che gli fu dalla fame unico schermo,
  266. Preda al flutto rovente,
  267. Che crepitando giunge, e inesorato
  268. Durabilmente sovra quei si spiega.
  269. Torna al celeste raggio
  270. Dopo l'antica obblivion l'estinta
  271. Pompei, come sepolto
  272. Scheletro, cui di terra
  273. Avarizia o pietà rende all'aperto;
  274. E dal deserto foro
  275. Diritto infra le file
  276. Dei mozzi colonnati il peregrino
  277. Lunge contempla il bipartito giogo
  278. E la cresta fumante,
  279. Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
  280. E nell'orror della secreta notte
  281. Per li vacui teatri,
  282. Per li templi deformi e per le rotte
  283. Case, ove i parti il pipistrello asconde,
  284. Come sinistra face
  285. Che per vòti palagi atra s'aggiri,
  286. Corre il baglior della funerea lava,
  287. Che di lontan per l'ombre
  288. Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
  289. Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
  290. Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
  291. Dopo gli avi i nepoti,
  292. Sta natura ognor verde, anzi procede
  293. Per sì lungo cammino
  294. Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
  295. Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
  296. E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
  297. E tu, lenta ginestra,
  298. Che di selve odorate
  299. Queste campagne dispogliate adorni,
  300. Anche tu presto alla crudel possanza
  301. Soccomberai del sotterraneo foco,
  302. Che ritornando al loco
  303. Già noto, stenderà l'avaro lembo
  304. Su tue molli foreste. E piegherai
  305. Sotto il fascio mortal non renitente
  306. Il tuo capo innocente:
  307. Ma non piegato insino allora indarno
  308. Codardamente supplicando innanzi
  309. Al futuro oppressor; ma non eretto
  310. Con forsennato orgoglio inver le stelle,
  311. Né sul deserto, dove
  312. E la sede e i natali
  313. Non per voler ma per fortuna avesti;
  314. Ma più saggia, ma tanto
  315. Meno inferma dell'uom, quanto le frali
  316. Tue stirpi non credesti
  317. O dal fato o da te fatte immortali.
PARAFRASI

Nell'epigrafe evangelica è già annunciata l'esaltazione di quella età dei lumi, alla quale più polemicamente si rifarà il Leopardi per contrapporla all’età sua.


Qui sulla pendice (schiena) riarsa del tremendo (formidabil, latinamente 'spaventevole') distruttore (sterminator) monte Vesuvio (Vesevo, latinismo), che nessun altro arbusto o fiore allieta, tu odorosa ginestra spargi i tuoi cespi solitari intorno, appagata dai deserti [mostrando di non sdegnare i deserti, anzi quasi di prediligerli].
Ti vidi un’altra volta abbellire con i tuoi steli anche le solitarie contrade che circondano Roma (la cittade) la quale città [Roma] fu un tempo dominatrice di popoli, e sembra che (par che) [le contrade]  con il loro cupo e silenzioso aspetto testimonino e ricordino al viandante (passeggero) il grande impero perduto. 
Ti rivedo ora in questo suolo tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di grandezze decadute.
Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata (impietrata), che risuona sotto i passi del viandante; dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio [v.23 allitterazione];
furono [la serie fur...fur...fur...- anafora - sottolinea e oppone alla desolazione il ricordo dello splendore delle città antiche] città opulente (liete nel senso latino) e campi coltivati, e biondeggiarono di messi,  e risuonarono di muggiti di mandrie;
furono  giardini e ville sontuose, soggiorno gradito all'ozio dei potenti [poiché queste città erano stazioni turistiche];
e furono città famose che il vulcano indomabile, vomitando (fulminando: spargendo lava) torrenti di lava dalla sua bocca di fuoco (ignea) distrusse insieme con i loro abitanti.
Ora invece una sola rovina avvolge tutto quanto (involve), là dove tu dimori, o fiore gentile e, quasi compiangendo (commiserando) le altrui miserie, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione.
Venga in questi luoghi colui che suole elogiare (esaltar con lode, esaltare con enfasi, con convinzione cieca) la nostra umana condizione (il nostro stato) e guardi quanto la natura benigna, amorevole (amante, detto con sarcasmo) si curi del genere umano.
E qui potrà anche giudicare esattamente la potenza (possanza) del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta (ov'ei men teme), con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ meno lievi annientare del tutto all'improvviso (subitamente).
In questi luoghi (rive) sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (magnifiche sorti e progressive iperbato - la citazione proviene dalla dedica che il cugino del poeta, Terenzio Mamiani, premetteva agli Inni Sacri).

Qui guarda e ammira rispecchiato te stesso (ti specchia), secolo superbo [perchè pensi di dominare la natura e credi nel progresso] e stolto [perchè non ti rendi conto delle minacce che sovrastano il mondo], che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento (il risorto pensier, che aveva sgombrato tutte le oscurità del medioevo) e, tornato indietro (volti addietro i passi), per di più ti vanti del procedere a ritroso (del ritornar) e lo chiami progresso.
Tutti gli uomini d'ingegno, di cui la sorte malvagia (sorte rea) ti rese padre [poiché davvero meritavano di vivere in un secolo migliore] e queste tue manifestazioni di infantile insensatezza (al tuo pargoleggiar), vanno applaudendo la tua follia, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano.
A me non accadrà di lasciare questa vita macchiato di una simile vergogna [opposizione al conformismo che regna tra gli uomini d'ingegno], ma avrò [prima] mostrato nel modo più esplicito il disprezzo che è chiuso (si serra) nel mio animo verso di te, benché io sappia che chi non piacque [ai propri contemporanei] è destinato alla dimenticanza (preme, latinamente, vale 'avvolge, ricopre'). Di questo male [cioè l'essere dimenticato], che condivido con te [cioè con il secolo], fin d'ora non mi importa nulla (mi rido).
Sogni la libertà (vai sognando, rende l'idea dell'illusione) e nel contempo vuoi servo il pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto è cresciuta la civiltà, che sola guida i destini dei popoli verso il progresso.
Tanto ti spiacque la verità relativa alla sorte dolorosa (aspra sorte) e alla condizione miserevole che la natura ci ha dato.
Per questo volgesti le spalle al pensiero (lume) che lo rivelò (il fè palese) [l'oggetto è il vero, con allusione in particolare alla filosofia dell'illuminismo – i vv. 80/83 richiamano quanto affermato nella citazione evangelica con cui inizia la lirica] e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine e magnanimo colui che esalta fino alle stelle la condizione umana, illudendo se stesso o gli altri e mostrandosi così astuto [se inganna gli altri] o folle [se inganna se stesso].

Un uomo di umile condizione (povero stato) ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte (ricco d'or ne gagliardo) e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma si lascia vedere, senza vergognarsene, debole e povero (di forza e di tesor mendico) e si dichiara tale apertamente e mostra la sua condizione secondo quello che è in realtà.
Non credo che sia un essere (animale - sineddoche) magnanimo [riprendendo il magnanimo del v.84], ma stolto colui che , nato per morire, cresciuto in mezzo ai dolori (nutrito di pene), dice:
sono stato fatto per essere felice (a goder son fatto) e stende scritti pieni di orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e nuove felicità [riprende le magnifiche sorti e progressive del v.51], quali [non solo questa terra]  anche il cielo intero ignora, a popoli che un maremoto (un'onda di mar commosso), una pestilenza (un fiato d'aura maligna), un terremoto (un sotterraneo crollo) può distruggere in un modo tale che a stento (a gran pena) rimane il ricordo di essi.
Nobile creatura è [al contrario] quella che ha il coraggio di guardare (a sollevar s'ardisce gli occhi mortali) in faccia il destino umano (comun fato)e apertamente (con franca lingua), senza togliere nulla al vero, ammette il male che ci è stato dato in sorte e la nostra insignificante e fragile condizione; è quella [con richiamo al verso 111, cioè quella natura] che si rivela grande e forte nelle sofferenze, e non aggiunge alle sue miserie gli odi e le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, incolpando l'uomo del suo dolore, ma dà la colpa a quella che è davvero responsabile (è rea), che è madre dei mortali perchè li ha generati, ma matrigna nella volontà [per il trattamento che riserva loro – v. 125 chiasmo].
Chiama nemica costei [la natura], e pensando che contro costei sia unita, come realmente è (siccome è il vero), e ordinata fin dalla sua prima origine, la società umana ritiene che tutti gli uomini siano alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto e aspettandolo [a seconda delle circostanze] nei pericoli che minacciano or gli uni or gli altri e nelle sofferenze della lotta che li accomuna [di tutti gli esseri umani contro la natura].
E armarsi e porre insidie e ostacoli per contrastare un altro uomo (al vicino) [il soggetto è sempre la nobil natura del v.111] sia cosa stolta così come sarebbe sciocco in un campo [di battaglia] circondato da nemici, nel più aspro infuriare degli assalti (in sul più vivo incalzar degli assalti), dimenticandosi dei nemici, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni e fare stragi con la spada (fulminar col brando) tra i commilitoni [l'inimicizia umana fa il gioco del nemico, cioè della natura].
Quando siffatte considerazioni (così fatti pensieri) quando saranno, come furono un tempo [per effetto delle dottrine illuministiche], evidenti al popolo, e quel terrore che per primo spinse agli esseri umani a stringere legami sociali contro la natura malvagia [è l'idea derivante dalle dottrine settecentesche, specie di Rousseau] sarà ricondotto da una vera sapienza, allora i rapporti civili ispirati ad onestà e rettitudine (l'onesto e il retto conversar cittadino), la giustizia e la pietà, avranno un ben diverso fondamento (altra radice) che non le fantasie piene di presunzione e prive di consistenza (fole, superbe perchè pretendono di fare dell'uomo un essere felice), basandosi sulle quali la probità dell'umanità (volgo) sta in piedi, così come può stare in piedi tutto quello che si fonda sull’errore.
Spesso in questi luoghi alle pendici del vulcano che, desolate, la lava solidificata ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde marine (par che ondeggi, quasi fosse ancora incandescente), trascorro la notte; esulla campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto brillare le stelle, alle quali (cui, le stelle) da lontano il mare fa da specchio, e [vedo] tutto intorno (in giro) di scintille nella cavità serena, immensa, del cielo brillare il mondo.
E fissando quelle luci (che gli occhi a quelle luci appunto), che agli occhi (a lor) sembrano un punto (cioè piccolissime), mentre sono tanto grandi (immense) che un punto, rispetto a loro, sono in verità (veracemente, in opposizione a sembrano del v.168) la terra e il mare; alle quali (cui, le stelle) non solo l’uomo, ma anche questo pianeta (globo) dove l’uomo è nulla è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana nebulosa (nodi quasi di stelle), che a noi pare quasi nebbia, a cui (mentre a essi: i nodi) non solo l’uomo o la terra, ma tutte le nostre stelle, infinite nel numero enella grandezza (mole), compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così appaiono, come loro stesse alla terra, un punto di luce nebbiosa (nebulosa); al pensiero mio cosa sembri allora, o genere umano (prole dell'uomo)? [la prole dell'uomo è nulla se confrontata alla vastità dei cieli].
E io, ricordando la tua condizione miserevole (il tuo stato quaggiù), di cui è testimonianza (fa segno) il suolo che io calpesto [cioè: ricordando che sei fango, polvere] e poi dall'altra parte [ricordando] che ti credi di essere stata destinata ad essere dominatrice (signora) e scopo (fine) ultimo dell’universo (al Tutto), e [ricordando] quante volte ti piacque raccontare che in questo oscuro granello di sabbia che ha nome Terra, scendevano per causa tua gli dei, creatori (autori) dell’universo, e conversavano spesso con piacere insieme agli uomini (co' tuoi = coi mortali; fa riferimento alla credenza che gli dei scendessero e d'intrattenessero coi mortali) e che perfino il secolo attuale (la presente età), che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, reca insulto ai saggi rinnovando dei sogni ormai ridicoli [col restaurare certe credenze religiose], quale sentimento o quale pensiero , infelice umanità (mortal prole infelice), assale alla fine il mio cuore?
Non so se prevale il riso [per la tua stolta superbia] o la pietà [per la tua cecità, la tua miseria].

Come un piccolo frutto [similitudine], in autunno inoltrato, la sola maturazione, senza il concorso dialtre forze (maturità senz'altra forza) fa precipitare a terra, e cadendo schiaccia, annienta e sommerge (copre) in un attimo i nidi scavati nel molle terreno dalle formiche con grande fatica e lavoro e provviste che quella gente laboriosa (l'assidua gente, le formiche) avevano accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate; allo stesso modo le tenebre ed una valanga (ruina) di ceneri, di rocce laviche (pomici) e di pietre, miste a ruscelli di lava (bollenti) piombando dall’alto, (dopo esser stata) scagliata verso il cielo dalle viscere fragorose (utero tonante) del vulcano, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, e di metalli e di sabbia (arena) infuocata, scendendo furiosa tra l'erba lungo il pendio della montagna, sconvolse (confuse), distrusse (infranse) e ricoprì (ricoperse) in pochi istanti le città che il mare lambiva là sulla costa: per cui su quelle [città] ora pascola la capra, e nuove città sorgono dall’altra parte sopra quelle sepolte (a cui sgabello son le sepolte) e l’alto monte quasi calpesta con il suo piede le mura cadute (prostrate mura).
La natura non nutre più attenzione, nè maggiore considerazione per la specie umana (seme dell'uom) che per la formica, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda [cioè gli uomini sono meno numerosi delle formiche: è dunque una questione statistica.]

Ben milleottocento anni passarono dopo che sparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le città popolose (i popolati seggi) e il contadino (villanello) intento alla cura dei vigneti, che a stento in questi campi la terra arida e bruciata fa crescere, ancora alza lo sguardo con apprensione alla sommità del vulcano (vetta fatal), che per nulla divenuta più mite, ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia strage a lui ed ai figli e ai loro miseri averi (averi lor poverelli).
E spesso il meschino trascorrendo la notte insonne all’aperto sul tetto della modesta abitazione e sobbalzando più volte (per la paura), scruta con attenzione l’avanzare del fronte lavico (bollor) che si riversa dalle viscere (grembo) inesauribili del vulcano  sul pendio sabbioso (arenoso dorso, richiama l'arida schiena del v.1), al cui bagliore riluce la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina.
E se lo vede avvicinarsi (il fronte lavico), o se mal sente gorgogliare nella profondità (nel cupo) del pozzo di casa l’acqua che ribollendo (fervendo),subito sveglia i figli e la moglie e fugge via, portando con sé quante più cose può, e vede da lontano la sua abitazione di sempre (l'usato suo nido), e il piccolo campo, che fu l’unica difesa dalla fame, preda della lava (flutto rovente) che avanza crepitando, e inesorabile (inesorato) per sempre si distende sul campo e sulla casa.
Dopo un oblio di secoli (l'antica obblivion) torna alla luce del sole Pompei, cancellata dall’eruzione, come uno scheletro, che il desiderio di tesori o la pietà restituisce all'aria aperta, togliendolo dalla terra; e dal foro deserto [che gli scavi hanno restituito alla luce] il visitatore (il pellegrino), in piedi tra le file delle colonne spezzate, contempla da lontano la doppia cima (bipartito giogo) del vulcano [il Vesuvio e il monte Somma] e il pennacchio di fumo che ancora minaccia le rovine sparse intorno [della città].
E nell’orrore della notte che cela ogni cosa (secreta),per i vuoti teatri, per i templi devastati (deformi, che la lava ha intaccato, deturpato) e per le case distrutte (rotte), dove il pipistrello nasconde i piccoli, come una fiaccola sinistra che lugubre (atra) si aggiri per i palazzi vuoti (vòti palagi), corre il bagliore della lava mortale,  che da lontano rosseggia nelle tenebre della notte e colora i luoghi tutto intorno.
Così indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni (del seguir che fanno dopo gli avi i nepoti), la natura si mantiene sempre giovane e vigorosa (verde), e anzi il suo cammino è così lungo ch'ella sembra star ferma.
Cadono intanto i regni, si succedono genti e lingue diverse: ella non vi fa caso (nol vede, non se ne avvede) e nonostante questo l'uomo si vuole arrogare il vanto di essere eterno.

E tu (apostrofe), flessibile (lenta - è attribuito da Virgilio nelle Georgiche: lentae genistae) ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate [immagini simboliche, la ginestra che adorna le campagne rappresenta la virile rassegnazione del poeta e il fatto che allieti del suo profumo rappresenta il conforto che poeta e poesia arrecano nella deserta desolazione della vita], anche tu [come il poeta, similitudine: poeta = ginestra] presto soccomberai alla crudele prepotenza del vulcano, la cui lava ("sotterraneo foco") tornando al luogo già altra volta visitato (per questo già noto) stenderà il suo mantello avido di morte (avaro) sulle tenere selve di ginestre. E tu, senza opporre resistenza [perchè vana, inutile] piegherai [con dignità] il tuo capo innocente sotto il peso della lava (fascio mortal): ma senza averlo piegato prima (riferito a capo v.306) inutilmente ("indarno") dinnanzi all'oppressore futuro (in futuro è l'idea di un nemico sempre in agguato), ma neanche levato con folle orgoglio fino alle stelle o sul deserto dove [nel deserto], tu sei nata e hai dimora non per tua volontà, ma per caso fortuito; ma più saggia, ma tanto meno insensata (inferma, nel senso di insicura, debole) dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che la tua stirpe siano divenute immortali per merito tuo o del destino.
Il verso finale, che sintatticamente si riferisce alle stirpi della ginestra, praticamente è invece tutto rivolto all’uomo.


Analisi e commento:

La Ginestra o fiore del del deserto conclude il pensiero filosofico di Leopardi e è praticamente il suo testamento spirituale. Nella canzone si parla della coraggiosa e allo stesso tempo fragile resistenza, che la ginestra oppone alla lava del Vesuvio, il monte sterminatore, simbolo della natura crudele e distruttiva. Il delicato fiore coraggiosamente risorge sulla lava impietrata, e con la fragranza dei suoi arbusti sembra rallegrare queste lande desolate. Ma il suo destino è tragicamente segnato da una nuova eruzione, capace di annullare non solo la sua consolante presenza ma - ben più drammaticamente - la presenza dell'uomo in questi luoghi. La ginestra diviene simbolo della condizione umana.
Leopardi in questo canto mette in contrapposizione la smisurata potenza della Natura con la debolezza e fragilità, e direi quasi impotenza, del genere umano: da un lato la Natura che tutto può e dall'altro l'uomo che deve subire ciò che la divinità superiore con i suoi "decreti" ha stabilito per lui; l'insesorabile inimicizia della Natura nei confronti degli uomini in contrasto con la ridicola superbia degli uomini che, pur non essendo nulla, si credono padroni e signori della terra e dell'universo.
Il canto può essere diviso in 8 parti:

  • La ginestra (versi 1-16);
  • invettiva contro la natura - ginestra simbolo della poesia (versi 17-51);
  • invettiva contro a cultura dominante (versi 52-86);
  • la magnanima grandezza, unico possibile riscatto dalla miseria della condizione umana, è unita a un ideale di fraternità con gli altri uomini (versi 86-157)
  • piccolezza dell'uomo, precarietà della condizione umana - visione di spazi cosmici sterminati, immensità gelida incomprensibile e arcana - lo spazio smisurato coincide col nulla (versi 158-201)
  • cecità della natura cieche e inesorabili sono le forze naturali che casualmente distruggono i viventi nella morte: in ogni caso la Natura segue impassibile il suo eterno corso (versi 202-236)
  • potenza e insensibilità della natura: non solo sul nuovo, ma anche sulle rovine incombe minacciosa la Natura (versi 237-296)
  • umiltà e saggezza dell'uomo illuminato (versi 297-317)

Metrica:

Canzone libera composta di sette stanze libere di diversa dimensione e, spesso, rime al mezzo. I versi sono endecasillabi e settenari. Ogni strofa si chiude con rima ed endecasillabo. Le figure retoriche sono molte: allegorie, anacoluti, iperbati, allitterazioni, metafore, similitudini: Numerosi anche gli enjambements.