ULISSE
Divina Commedia - Inferno – Canto XXVI – vv.79-142
Dante Alighieri
- "O voi che siete due dentro ad un foco,
- s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
- s'io meritai di voi assai o poco
- quando nel mondo li alti versi scrissi,
- non vi movete; ma l'un di voi dica
- dove, per lui, perduto a morir gissi".
- Lo maggior corno della fiamma antica
- cominciò a crollarsi mormorando
- pur come quella cui vento affatica;
- indi la cima qua e là menando,
- come fosse la lingua che parlasse,
- gittò voce di fuori, e disse: "Quando
- mi diparti' da Circe, che sottrasse
- me più d'un anno là presso a Gaeta,
- prima che sì Enea la nomasse,
- né dolcezza di figlio, né la pieta
- del vecchio padre, né 'l debito amore
- lo qual dovea Penelopé far lieta,
- vincer potero dentro a me l'ardore
- ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
- e delli vizi umani e del valore;
- ma misi me per l'alto mare aperto
- sol con un legno e con quella compagna
- picciola dalla qual non fui diserto.
- L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
- fin nel Morrocco, e l'isola de’ Sardi,
- e l'altre che quel mare intorno bagna.
- Io e' compagni eravam vecchi e tardi
- quando venimmo a quella foce stretta
- dov'Ercule segnò li suoi riguardi,
- acciò che l'uom più oltre non si metta:
- dalla man destra mi lasciai Sibilia,
- dall'altra già m'avea lasciata Setta.
- "O frati", dissi "che per cento milia
- perigli siete giunti a l'occidente,
- a questa tanto picciola vigilia
- de’ nostri sensi ch'è del rimanente,
- non vogliate negar l'esperienza,
- di retro al sol, del mondo sanza gente.
- Considerate la vostra semenza:
- fatti non foste a viver come bruti,
- ma per seguir virtute e canoscenza".
- Li miei compagni fec'io sì aguti,
- con questa orazion picciola, al cammino,
- che a pena poscia li avrei ritenuti;
- e volta nostra poppa nel mattino,
- dei remi facemmo ali al folle volo,
- sempre acquistando dal lato mancino.
- Tutte le stelle già de l'altro polo
- vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
- che non surgea fuor del marin suolo.
- Cinque volte racceso e tante casso
- lo lume era di sotto da la luna,
- poi che 'ntrati eravam nell'alto passo,
- quando n'apparve una montagna, bruna
- per la distanza, e parvemi alta tanto
- quanto veduta non avea alcuna.
- Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
- ché de la nova terra un turbo nacque,
- e percosse del legno il primo canto.
- Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
- a la quarta levar la poppa in suso
- e la prora ire in giù, com'altrui piacque,
- infin che 'l mar fu sovra noi richiuso".
"O voi (Virgilio si rivolge alle anime di Ulisse e Diomede) che vi trovate in due dentro una sola fiamma (due dentro ad un foco - condannati a stare tra i consiglieri fraudolenti, sono racchiusi in una stessa fiamma divisa in due lingue), se io ho, durante la mia vita (mentre ch’io vissi), ho acquisito presso di voi qualche merito (s’io meritai di voi), grande o piccolo (assai o poco) quando sulla terra (quando nel mondo) scrissi i nobili versi (alti versi), non andate via (non vi movete): e uno di voi [Ulisse] racconti dove, per sua libera scelta (per lui), smarritosi andò (gissi) a morire".
La punta più alta (lo maggior corno – nella lingua di fuoco di maggiore dimensione si trova Ulisse perché di maggiore fama rispetto al compagno) dell’antica fiamma (la fiamma in cui da secoli, perciò antica, Ulisse e Diomede scontano la loro pena) cominciò ad agitarsi (crollarsi) rumoreggiando proprio come quella che il vento scuote (affatica – si affatica per la difficoltà a rimanere accesa con i soffi di vento); poi, dimenando (menando) di qua e di là la punta, quasi fosse la lingua che parlava, gettò fuori la voce, e disse: "Quando mi allontanai (mi dipartì) da Circe (la maga Circe, figlia del Sole, si era innamorata di Ulisse e lo aveva trattenuto sulla sua isola, Eeta, ritardando il suo rientro a Itaca), che mi trattenne (sottrasse) per oltre un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea la chiamasse così (come narra Virgilio nel canto VII dell’Eneide, Enea chiamò Gaeta quella località in memoria della nutrice Caieta ivi sepolta), né la tenerezza per il figlio (Telemaco), né il rispetto (pieta) per il vecchio padre (Laerte), né il dovuto (debito - legittimo) amore che doveva rendere felice Penelope (sposa di Ulisse), poterono vincere (vincer potero - anastrofe) dentro di me l’ardente desiderio (ardore) che ebbi di conoscere (divenir del mondo esperto – anastrofe - diventare profondo conoscitore) il mondo, e i vizi e le virtù degli uomini (per Ulisse la sete di conoscenza è superiore a ogni altra aspirazione) ma mi misi in viaggio per lo sconfinato (aperto) profondo (alto) mare con una nave (legno - sineddoche) soltanto (sol), e con quella piccola schiera di uomini (compagna picciola) dai quale non fui mai abbandonato (non fui diserto).
Vidi l’una e l’altra sponda (L'un lito e l'altro – del mediterraneo, quella europea e quella africana) fino alla Spagna, fino al Marocco (Morocco), e alla Sardegna (l'isola de’ Sardi - metonimia), e alle altre isole bagnate tutt’intorno da quel mare.
Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti (tardi nei movimenti) allorché giungemmo a quello stretto varco (foce stretta – lo stretto di Gibilterra) dove Ercole (Ercule) fissò i suoi confini (riguardi – secondo il mito classico Ercole aveva stabilito che il limite del mondo esplorabile fosse lo stretto di Gibilterra), affinché (acciò che) l’uomo non si spinga oltre: lasciai alla mia destra Siviglia (Sibilia – sulla costa spagnola), alla mia sinistra ormai Ceuta (Setta – sulla costa africana del Marocco) mi aveva lasciato.
"O fratelli" (frati - compagni), dissi, "che avete raggiunto l’estremità occidentale (del mondo conosciuto) in mezzo a centomila pericoli (cento milia perigli siete giunti - iperbole), in questo poco tempo (picciola vigilia)di vita sensibile (de’ nostri sensi), che ancora ci rimane (ch'è del rimanente), non vogliate negare la conoscenza (esperienza), seguendo la direzione del sole (di retro al sol – cioè andando verso occidente), della parte del mondo disabitato (mondo sanza gente – secondo la cosmologia dantesca, l’emisfero sud del mondo era disabitato perché completamente ricoperto dall’oceano).
Riflettete sulla vostra origine (semenza): non siete stati creati per vivere come delle bestie (come bruti – come animali privi della ragione), ma per conseguire virtù morale ed estendere il vostro sapere” (antitesi – Ulisse contrappone il modo di vivere materiale e vegetativo degli animali a quello razionale e nobile dell’uomo).
Con questo breve discorso (orazion picciola) resi i miei compagni così desiderosi (sì aguti) di mettersi in viaggio (al cammino), che a stento (a pena) dopo (poscia) sarei riuscito a fermarli; e rivolta verso Oriente (nel mattino) la poppa della nostra nave (e quindi la prua verso occidente), trasformammo i remi in ali (metafora) per quella folle impresa (folle volo – Dante la reputa folle perché ritiene le colonne di Ercole simbolo del limite invalicabile imposto da Dio alla conoscenza umana e cercare di superarle, senza l’aiuto della Grazia divina, che Ulisse in quanto pagano non poteva avere, è una follia), sempre avanzando (acquistando) verso sinistra (dal lato mancino – verso la costa africana).
La notte ci mostrava già tutte le stelle dell’antartico (de l'altro polo – visibili soltanto dall’altro emisfero - anastrofe), mentre le stelle del nostro polo ('l nostro - il polo artico) erano così basse che non emergevano (surgea fuor) al di sopra della superficie del mare (marin suolo).
Cinque volte si era illuminata (racceso) e altrettante (tante) spenta (casso) la luce della parte inferiore della luna (di sotto – l’emisfero visibile dalla terra), da quando avevamo intrapreso ('ntrati eravam - anastrofe) l’arduo viaggio (nell'alto passo), [erano quindi passati cinque mesi] allorché ci apparve una montagna (è la montagna del Purgatorio, unica terra emersa dell’emisfero australe), di colore scuro (e quindi indistinta) per la distanza, e mi sembrò tanto alta come non ne avevo mai vedute.
Noi gioimmo (per aver avvistato la terra), e subito la nostra gioia si mutò in disperazione (tosto tornò in pianto) perché (chè) dalla terra appena avvistata sorse un turbine di vento (un turbo), che colpì (percosse) la prua (il primo canto la parte anteriore) della nave.
Tre volte fece girare lo scafo su se stesso insieme con le acque circostanti (tutte l'acque); alla quarta (volta) fece sollevare (levar) la poppa verso l’alto (in suso) e fece sprofondare (ire in giù) la prua, come piacque a Dio (altrui), finché il mare si richiuse sopra di noi" (la nave affonda e l’oceano si richiude sopra di essa come se non fosse mai passata).