CONTE UGOLINO
Divina Commedia - Inferno – Canto XXXIII – vv.1-90
Dante Alighieri
- La bocca sollevò dal fiero pasto
- quel peccator, forbendola a' capelli
- del capo ch'elli avea di retro guasto.
- Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli
- disperato dolor che 'l cor mi preme
- già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
- Ma se le mie parole esser dien seme
- che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
- parlar e lagrimar vedrai insieme.
- Io non so chi tu se' né per che modo
- venuto se' qua giù; ma fiorentino
- mi sembri veramente quand' io t'odo.
- Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
- e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
- or ti dirò perché i son tal vicino.
- Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
- fidandomi di lui, io fossi preso
- e poscia morto, dir non è mestieri;
- però quel che non puoi avere inteso,
- cioè come la morte mia fu cruda,
- udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
- Breve pertugio dentro da la Muda,
- la qual per me ha 'l titol de la fame,
- e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,
- m'avea mostrato per lo suo forame
- più lune già, quand' io feci 'l mal sonno
- che del futuro mi squarciò 'l velame.
- Questi pareva a me maestro e donno,
- cacciando il lupo e ' lupicini al monte
- per che i Pisan veder Lucca non ponno.
- Con cagne magre, studïose e conte
- Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
- s'avea messi dinanzi da la fronte.
- In picciol corso mi parieno stanchi
- lo padre e ' figli, e con l'agute scane
- mi parea lor veder fender li fianchi.
- Quando fui desto innanzi la dimane,
- pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
- ch'eran con meco, e dimandar del pane.
- Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
- pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava
- e se non piangi, di che pianger suoli?
- Già eran desti, e l'ora s'appressava
- che 'l cibo ne solëa essere addotto,
- e per suo sogno ciascun dubitava;
- e io senti' chiavar l'uscio di sotto
- a l'orribile torre; ond' io guardai
- nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
- Io non piangëa, sì dentro impetrai:
- piangevan elli; e Anselmuccio mio
- disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
- Perciò non lagrimai né rispuos'io
- tutto quel giorno né la notte appresso,
- infin che l'altro sol nel mondo uscìo.
- Come un poco di raggio si fu messo
- nel doloroso carcere, e io scorsi
- per quattro visi il mio aspetto stesso,
- ambo le man per lo dolor mi morsi;
- ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
- di manicar, di sùbito levorsi
- e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
- se tu mangi di noi: tu ne vestisti
- queste misere carni, e tu le spoglia".
- Queta'mi allor per non farli più tristi;
- lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
- ahi dura terra, perché non t'apristi?
- Poscia che fummo al quarto dì venuti,
- Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
- dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?".
- Quivi morì; e come tu mi vedi,
- vid' io cascar li tre ad uno ad uno
- tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi,
- già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
- e due dì li chiamai, poi che fur morti.
- Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».
- Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti
- riprese 'l teschio misero co' denti,
- che furo a l'osso, come d'un can, forti.
- Ahi Pisa, vituperio de le genti
- del bel paese là dove 'l sì suona,
- poi che i vicini a te punir son lenti,
- muovasi la Capraia e la Gorgona,
- e faccian siepe ad Arno in su la foce,
- sì ch'elli annieghi in te ogne persona!
- Che se 'l conte Ugolino aveva voce
- d'aver tradita te de le castella,
- non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
- Innocenti facea l'età novella,
- novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
- e li altri due che 'l canto suso appella.
Quel peccatore (Ugolino) sollevò la bocca dal suo feroce (fiero - ferino) pasto, pulendola (forbendola) con i capelli della testa (dell’Arcivescovo Ruggieri) ch'egli aveva roso (guasto) sulla nuca (di retro – nella parte posteriore).
Poi cominciò [a parlare]: "Tu vuoi ch'io ricordi (rinovelli) il dolore disperato che m'opprime (mi preme) il cuore anche soltanto (già pur) a pensarci (pensando), prima ancora di parlarne (ne favelli).
Ma se le mie parole devono esser un seme (esser dien seme – possono essere utili) a procurare infamia al traditore che sto rodendo, [allora] mi vedrai parlare e lacrimare insieme (zeugma: i 2 verbi sono retti entrambi da vedrai – ricorda Francesca nel V canto: dirò come colui che piange e dice).
Io non so chi tu sia, né so in che modo sei venuto quaggiù, ma ad ascoltar
la tua parlata (quand’io t’odo) mi sembri fiorentino (l’unica cosa che interessa ad Ugolino di Dante è il fatto che egli sia fiorentino, quindi al corrente dei fatti).
Tu devi sapere che io fui il conte Ugolino e costui è l'arcivescovo Ruggieri: ora ti dirò perché io sia per lui (i son) un vicino così (tal) [crudele - da mangiarlo].
Non occorre che ti racconti (dir non è mestieri – Ugolino dato che Dante è fiorentino sa che conosce la vicenda che all’epoca aveva avuto grande clamore) come, pur fidandomi di costui, fui per causa dei suoi maligni intrighi (mai pensieri) incarcerato e ucciso (preso e poscia morto).
Perciò udirai quel che tu non puoi aver sentito [tutti conoscevano la fine tremenda di Ugolino ma nessuno era al corrente dei dettagli] e saprai quanto la mia morte fu crudele (cruda) e se costui (s’e’) m'abbia offeso.
Una finestrella (pertugio – feritoia della stanza della torre dove era stato rinchiuso) dentro la torre Muda (la torre dei Gualandri, una delle famiglie ghibelline nemiche di Ugolino. Servì da prigione ed in seguito fu ribattezzata la “torre della fame”), che a causa mia (per me – per esservi morto) prese il nome (titol) "della fame" e che conviene che venga chiusa [sprangata] per [ospitare] ancora altri [prigionieri], m'aveva mostrato attraverso la sua apertura (forame) varie lune nuove (il trascorrere dei mesi) quando feci il sogno funesto (mal sonno – l’incubo, il sogno premonitore della sua morte e di quella dei suoi figli) che mi squarciò il velo del futuro.
Vedevo costui (questi pareva – l’arcivescovo Ruggieri) guida (maestro) e signore (donno – dal latino dominus) mentre cacciava un lupo e i suoi lupacchiotti sul monte a causa del quale (per che) i pisani non possono (ponno – forma toscana) vedere Lucca [è il monte San Giuliano o monte Pisano].
Con cagne (metafora – la muta di cani indica il popolo) fameliche (magre), sollecite (studiose) e addestrate (conte) [l’arcivescovo] aveva disposto davanti a sé (s’avea messi dinanzi dalla fronte) i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi [famiglie ghibelline di Pisa che l’arcivescovo aizzò contro Ugolino insieme al popolo rappresentato dalla muta di cani].
Dopo breve corsa (in picciol corso) il padre e i figli (lupo e lupicini sono divenuti padri e figli) erano stanchi e le cagne già dilaniavano i loro fianchi con le aguzze zanne (agute scane).
Quando, prima del mattino (innanzi la dimane) mi svegliai, sentii i miei figlioli (in realtà erano 2 figli – Gaddo e Uguccione – e 2 nipoti – Nino, detto il brigata, e Anselmuccio), ch'erano con me, piangere e chiedere del pane mentre dormivano.
[Il racconto si interrompe con questa apostrofe diretta a Dante] Saresti davvero crudele se tu già non provassi dolore pensando a ciò che il mio cuore presagiva (s’annunziava – presagiva a se stesso); e, se non lo fai [se non piangi, non provi dolore], davanti a cosa ti commuovi (di che pianger suoli )?
Ormai erano svegli [i miei figlioli] e si avvicinava l’ora in cui di solito ci portavano il cibo e a causa (per) del sogno fatto ognuno era in apprensione (ciascun dubitava – anche i 4 giovani avevano intuito nel sogno la loro prossima fine e quindi temevano ciò che poi sarebbe avvenuto).
Io sentii inchiodare (chiavar – nel senso di assicurare con “chiavelli”, cioè con chiodi – dal lat. clavus) la porta di sotto dell'orribile torre, per cui guardai in faccia i miei figlioli (enjambement – guardai/nel viso - che conferisce un ritmo concitato ai due versi) senza dire una parola (sanza far motto).
Io non piangevo, tanto il dolore m'aveva impietrito (impietrai): piangevano loro [i figli e i nipoti]; e il mio (il possessivo ha valore affettivo) Anselmuccio (il più giovane dei quattro di circa 15 anni, figlio di Guelfo II della Gherardesca) disse: "Padre perché ci guardi così?" ("Tu guardi sì, padre! che hai?" la sintassi sembra singhiozzare).
Perciò io non piansi e non risposi per tutto quel giorno e per la notte seguente, finché spuntò (usciò) l’alba successiva (l’altro sol) nel mondo.
Non appena (come) un po' di luce (un poco di raggio) riuscì a penetrare (si fu messo) nel doloroso carcere, ed io vidi sui loro quattro volti riflesso il mio stesso aspetto, per il dolore mi morsi ambo le mani; ed essi, pensando che lo facessi (ch’io ‘l fessi) per desiderio di mangiare (manicar – forma fiorentina popolare per mangiare), si alzarono immediatamente (di subito)
e dissero: "Padre, ci darà meno dolore (ci fia men doglia) se ti ciberai di noi: tu ci hai dato (ne vestisti - metafora) queste misere carni, tu puoi anche privarcene".
Allora mi quietai per non renderli più tristi; quel giorno e il successivo (lo dì e l’altro) rimanemmo tutti in silenzio (muti): ahi terra dura (dura terra - apostrofe), perché non ti sei aperta [per inghiottirci – richiama un verso dell’Eneide X, vv.675-676]?
Dopo che fummo arrivati al quarto giorno (al quarto dì venuti), Gaddo [figlio quartogenito di Ugolino] mi si gettò ai piedi disteso dicendo: "Padre mio perché non mi aiuti?".
E lì se ne morì; e come tu ora vedi me, così io vidi gli altri tre (li tre) cadere uno ad uno tra il quinto e il sesto [giorno], finché io stesso cominciai già cieco, a brancolare sopra ognuno di loro chiamandoli per altri due giorni [il settimo e l’ottavo giorno] dopo la loro morte, poi più che il dolore mi uccise la fame (più che 'l dolor, poté 'l digiuno la famosa frase suggerisce la possibilità di un epilogo cannibalesco).
Quand'ebbe detto questo, con gli occhi biechi (torti) riprese il misero teschio [dell’Arcivescovo] coi denti che nell’addentare l’osso furono forti come quelli di un cane (iperbato).
[Qui inizia l’invettiva di Dante contro Pisa ed egli invoca la distruzione della città e la morte dei suoi abitanti. Dante è sdegnato: se anche il conte Ugolino si era macchiato di tradimento, lui solo doveva pagare e non i figli innocenti]
Ahi Pisa (apostrofe), vergogna (vituperio) del popolo (de le genti) d'Italia (del bel paese), là dove si parla (suona) la lingua del "sì", poiché i tuoi vicini (le città nemiche, in particolare Lucca e Firenze) sono lenti a punirti,si muovano le isole Capraia e Gorgona (isole dell’arcipelago toscano, tra l’isola d’Elba e la foce dell’Arno, entrambe sotto il dominio di Pisa), e facciano argine (siepe - sbarramento) alla foce del fiume Arno, in modo che le sue acque anneghino ogni abitante.
Anche se fosse vera la voce che il conte Ugolino t'aveva tradito a causa dei (de le) castelli [ceduti ai nemici], non dovevi sottoporre i suoi figlioli a tale supplizio (croce).
Uguccione, il Brigata e gli altri due [Anselmuccio e Gaddo] che il canto menziona (appella) più sopra (suso), o nuova Tebe (Pisa viene paragonata a Tebe, città greca famosa per le tragiche lotte fratricide. Inoltre secondo la leggenda Pisa fu fondata da Pelope, figlio del Re di Tebe), la giovane età (età novella) li rendeva (facea) innocenti.